La definizione di “Metaverso” attualmente più accreditata è quella di Matthew Ball, media analyst ed ex responsabile delle strategie di Amazon Studios, comparsa prima sul suo blog e poi nel libro “The Metaverse”. Secondo Ball il Metaverso sarebbe “una rete interoperabile e su larga scala di mondi virtuali tridimensionali rappresentati in tempo reale, che può essere esperita in maniera sincrona e persistente da un numero illimitato di utenti con una sensazione individuale di presenza e con continuità di dati come l’identità, la storia, i diritti acquisiti, gli oggetti, le comunicazioni e i pagamenti”.
Per chi ha già vissuto hype, parabole tecnologiche e culturali della prima VR degli Anni ’90 e di Second Life quindici anni dopo, ciò che sta accadendo oggi con il Metaverso rimane un copione già visto. Purtroppo chi se ne occupa da tempo e con cognizione di causa viene spesso confuso con chi vuol solo cavalcare strumentalmente l’ennesima moda o, nel migliore dei casi, con chi appartiene ad altri mondi – AI, criptovalute, blockchain, NFT, tutte tecnologie interessanti ma non strettamente pertinenti – e vede una opportunità nell’utilizzare il termine per essere più selling.
Questa situazione genera disappunto in esperti quali Marco Camisani Calzolari e scatena polemiche. Ultima in odine cronologico è quella relativa alla pubblicazione di un articolo di Osservatorio Metaverso, nel quale si tenta di fare un po’ d’ordine nel complesso scenario in cui i vari potenziali player si stanno muovendo. L’analisi di Camisani Calzolari approccia Realtà Virtuale, Aumentata, Mondi Virtuali e molte altre tecnologie in maniera fortemente riduzionistica, attenendosi a quanto apparentemente sancito da Ball e rifiutando una visione di insieme, a suo parere inesistente. “Il Metaverso non esiste!”, tuona in un suo video .
Ma, se non vogliamo ridurre il tutto a un dibattito non del tutto scevro da un certo sensazionalismo televisivo ove vengono strillati proclami e consegnati tapiri d’oro virtuali, dobbiamo a noi stessi lo sforzo di andare un po’ più in profondità.
Quella di Ball è una definizione incompleta
La produzione creativa e la scrittura di codice sono curiosamente accomunate da due attività: trovare i nomi giusti per le proprie creazioni, quasi sempre ex post, e riformulare le domande quando le risposte sono insoddisfacenti. È questo il motivo che ci spinge a considerare la definizione di Ball apparentemente incompleta. In quelle poche righe non riesce a catturare significative tendenze culturali, tecnologiche e sociali che a nostro parere stanno oggettivamente convergendo verso l’affermazione di una nuova modalità di fruizione del mondo digitale che ci circonda.
Negarlo sarebbe sciocco. Se con quella succinta definizione di Metaverso stiamo a cavarci gli occhi l’un l’altro, pur lavorando da decenni con queste tecnologie ed avendone quindi una consistente esperienza, è evidente che la definizione non funzioni, non del tutto almeno.
Il primo punto sul quale vogliamo fare chiarezza sono quei “mondi virtuali tridimensionali” della definizione di Ball. Questo concetto evoca una visione del Metaverso limitata alla VR, oltretutto esperita “individualmente”, il che effettivamente richiama il classico scenario distopico con l’obbligatorio occhialone cyberpunk e tutti i relativi decadenti stereotipi. Lo stesso Matthew Ball, però, subito dopo aver fornito il suo “best swing” (cit.) per la definizione, ci tiene a precisare: “Molto comunemente il Metaverso è mal descritto come realtà virtuale. In realtà, la VR è solo uno dei modi per esperire il Metaverso. Dire che la VR è il Metaverso è come dire che internet per i dispositivi mobili è una app. È da notare, inoltre, che centinaia di milioni [di utenti] già fruiscono giornalmente di mondi virtuali (e ci passano decine di miliardi di ore al mese) senza alcun device VR/AR/MR/XR. Come corollario a quanto detto, i caschi VR non sono il Metaverso più di quanto gli smartphone siano l’internet mobile”. Infatti, molto saggiamente, Ball non parla di “immersione” ma di “presenza”.
Questi sono due aspetti complementari della fruizione del Reality Continuum; l’immersione è oggettiva, mediata da tecnologie ben precise (caschi, guanti, dispositivi aptici, audio spazializzato, CAVE, etc…) e addirittura misurabile, mentre la presenza è assolutamente soggettiva, essendo – come nella accezione originale di Milgram – la “naturalezza” che l’utente percepisce nell’interazione con un “altrove” (non necessariamente digitale, aggiungiamo). Entrambe concorrono a creare la cosiddetta suspension of disbelieve, la propensione dell’utente a voler accettare le regole di una realtà alternativa e a “stare al gioco”, fenomeno non limitato alle tecnologie immersive. Chiunque abbia letto un romanzo ben architettato, abbia pianto al cinema o abbia giocato a Dungeons & Dragons sa di che cosa stiamo parlando.
L’immersività è necessaria?
Al contrario, un’altra delle pretese intransigenti di Camisani Calzolari è proprio relativa alla presunta necessaria immersività – e non senso di presenza – del Metaverso, escludendo la Realtà Aumentata e la fruizione via schermi 2D dallo scenario (si veda video ai minuti 10:55, 12:26). Non siamo minimamente d’accordo: ci riconosciamo pienamente in quanto affermato nel documento del Novembre 2022 “Evolving an Interoperable Metaverse” del Metaverse Standards Forum, nel quale sono esplicitamente citati anche devices AR, nonché “phones, tablets and PCs”.
La VR è da maneggiare con cura. La nostra euristica ci induce a utilizzarla solo quando davvero serve, come raccomanda il paradigma D.I.C.E. di Jeremy Bailenson, fondatore del Virtual Human Interaction Lab presso la Stanford University: Dangerous, Impossible, Counterproductive, Expensive. Se volessi sapere cosa c’è nel mio frigorifero, ammesso che questo abbia dei sensori per dirmelo, non prenderei certamente in considerazione la VR come interfaccia per scoprirlo: quella non è una operazione pericolosa, impossibile, controproducente o costosa.
È questo tipo di nuova modalità di interazione verso la Realtà la vera chiave interpretativa per capire che cosa sia o dovrebbe essere o sarà il Metaverso.
Pertanto, quei “mondi virtuali tridimensionali” della definizione di Ball non sono solo VR ma tutto il Reality Continuum. VR, AR e tutte le sfumature in mezzo sono tutti ambiti nei quali esperire il Metaverso, che diventa quindi una profonda integrazione tra lo spazio dei dati digitali e la nostra percezione della Realtà in ogni sua forma (sella nostra “realtà” Philip K. Dick dice: “Reality is that which when you stop believing in it doesn’t go away”, che è probabilmente una definizione migliore di quella data da molti filosofi). Persino le tecnologie IoT e l’Ubiquitous Computing sono una parte significativa del puzzle che stiamo andando a comporre. Anche vedere la temperatura della nostra casa sul termostato è una fruizione di dati digitali localizzati. Tutto questo ci porta ad un secondo ingrediente fondamentale – anch’esso citato dal Metaverse Standard Forum – del Metaverso: lo Spatial Computing.
Nato come “interazione uomo-macchina dove la macchina mantiene e manipola riferimenti a oggetti e spazi reali” lo Spatial Computing negli anni ha assunto nuovi significati e utilizzi fortemente legati alla natura intrinsecamente tridimensionale di alcuni tipi di dati digitali. Siamo esseri tridimensionali e siamo immersi in uno spazio 3D; è ovvio che organizzare il mondo digitale in modo da riflettere questa nostra natura dia luogo a benefici e opportunità. Abbiamo iniziato ad interagire con le macchine scrivendo testo e ci siamo poi spostati verso altre metafore, come quella delle “finestre” bidimensionali e del desktop. Ora stiamo iniziando a sperimentare qualcosa di totalmente nuovo, anche se qualcuno penserà: quale è la novità? Siamo ormai abituati da anni a GPS, geolocalizzazione e navigatori.
In questo caso, però, la spazializzazione tridimensionale dei dati della quale stiamo parlando è molto più pervasiva e massiva, soprattutto nel solco di una fruizione attraverso la Realtà Aumentata, tecnologia di più evidente ed immediata utilità rispetto alla VR e che quindi ha maggiori opportunità di essere adottata in tempi brevi. L’idea di inquadrare qualsiasi oggetto con il nostro telefonino e ottenerne delle informazioni è potente, nel caso di un’opera d’arte in un museo così come in quello di un vasetto di marmellata al supermercato. Lato nostro, non vediamo perché non dovremmo chiamare questo ecosistema “Metaverso”.
Il resto della definizione di Ball è assolutamente condivisibile. È ovvio che deve esistere una dimensione sincrona e persistente, nonché sociale, per poter portare del valore aggiunto rispetto alle modalità con le quali già viviamo la nostra vita digitale. In tanti lo dicono e noi siamo d’accordo: la cosa più simile al Metaverso che già abbiamo a nostra disposizione è il Web e non dobbiamo rimpiangere nulla di quel mondo. Ci sono però dei dettagli tecnologici da smarcare: ad esempio, è davvero necessario supportare “un numero illimitato di utenti”? Che cosa significa da un punto di vista tecnico? Che cosa vogliamo ottenere in ultima analisi? Sederci in cima a una montagna virtuale e vedere a perdita d’occhio venti miliardi di avatar? Rifare la scena della battaglia finale di Ready Player One? Sarebbero necessarie delle precisazioni che però esulano dallo scopo di questo articolo.
Prove generali di Metaverso
Accanto alla dimensione sociale, vogliamo infine introdurre una chiave di lettura, non tecnologica ma contenutistica, per poter spiegare, almeno in parte, quanto che sta accadendo intorno a noi: il purpose. Certamente non possiamo negare che in questo momento non esista un singolo Metaverso, federato ed esperibile con un singolo avatar, un singolo account ed un singolo wallet. Però dobbiamo prendere atto degli innumerevoli sforzi da parte di migliaia di player grandi e piccoli nel creare uno scenario tanto frammentato quanto vivo. Paradossalmente, in questo momento la killer application del Metaverso è… creare metaversi, molti dei quali con abbastanza dignità da poter essere definiti tali, sebbene frammentati e con la “m” minuscola.
È evidente come per ora questi player stiano lavorando alle “prove generali di Metaverso” ognuno per i propri scopi: nel mondo finanziario non si potrà fare a meno di blockchain, criptovalute e infrastruttura economica spostandosi verso il Web3, nel mondo dell’Arte abbiamo metaversi che vestono con interazioni 3D il mercato degli NFT ed altri invece assolutamente assimilabili a dei musei senza alcuna transazione economica, Mozilla lavora su Hubs per mettere un piede nel mondo del “web che verrà”, NVIDIA con Omniverse fa sentire il suo peso nel campo della potenza di calcolo, Niantic e Matterport vendono tecnologie per creare e aumentare gemelli digitali, quando non il mondo stesso. Uno dei maggiori promotori dello stesso Metaverse Standard Forum è proprio NVIDIA e, guarda caso, la grafica fotorealistica in tempo reale viene data per scontata come una necessità nel documento citato precedentemente.
È però sempre il purpose a portare all’adozione: se una tecnologia non viene percepita come utile, non viene adottata. Senza una esigenza vera, o la soddisfazione di un’istanza ludico-ricreativa o di una profonda curiosità nutrita verso l’altrove, non sussiste un motivo valido per accedere a questo o quel metaverso. E questo è esattamente quanto sta succedendo con il “Metaverso” raccontato dai giornali. Nell’immaginario collettivo, e soprattutto ora che “Zuckerberg ha fallito e ha licenziato undicimila programmatori, e se non ce la fa lui figurati gli altri”, sembra che non vengano offerte soluzioni utili basate sul Metaverso, indiscutibilmente migliori di quelle già esistenti e adottate o addirittura completamente inedite. Certamente non sarà l’idea di “portare Office nel Metaverso” a farci battere il cuore più velocemente ma nemmeno far notare che il “fallimento” di Second Life – che ha più utenti oggi che nel 2007 e fattura decine di milioni di dollari all’anno – non ha in realtà avuto luogo basterà a modificare un preconcetto così ben radicato.
Inoltre, l’operazione di “unificazione dei metaversi” si porta dietro problematiche che vanno al di là di quella tecnica: nel mondo virtuale del Signore degli Anelli che senso ha la mia spada laser? Si deve trasformare automagicamente in qualcos’altro? Come affrontare le barriere culturali, religiose, morali del nostro mondo e del nostro tempo? Che cosa ne sarà del nostro avatar quando non ci saremo più? È necessario un grande lavoro filosofico ed etico, oltre che tecnologico. Ben vengano quindi organismi come il già citato Metaverse Standard Forum, ma anche il Metavhetics Institute , la produzione di lavori scientifici su inclusione, diversità, equità, accessibilità e sicurezza e lo stesso Osservatorio Metaverso insieme a moltissime altre realtà che lavorano nella stessa, scrödingeriana direzione: quella dell’uovo oggi E della gallina domani.
Sta quindi a noi seguire questa evoluzione e proporre applicazioni in divenire dove tecnica e contenuti si completino a vicenda e dove l’utilità possa convincere il mercato. Sarà l’adozione o addirittura la creazione ex-novo di un preciso standard che metterà d’accordo tutti (come è successo con il WWW e come sta cercando di fare il Metaverse Standard Forum con USD) a portarci al Metaverso unico ma fino ad allora saranno soltanto il purpose e il contenuto di ogni nostra singola creazione a decretarne l’adozione e quindi il successo, oppure il fallimento e l’oblio.