Osservatorio Metaverso

Che impatto possono avere le tecnologie immersive sulla nostra psiche? Per rispondere a questa domanda non potevo non affidarmi ad uno dei massimi esperti sul tema, il prof. Giuseppe Riva. ordinario di psicologia generale e psicologia della comunicazione all’Università Cattolica del Sacro Cuore. Riva dirige lo Humane Technology Lab, il laboratorio d’Ateneo che lavora sull’impatto delle nuove tecnologie sulle diverse dimensioni dell’esperienza umana. Inoltre è presidente dell’associazione di CyberPsychology, che raccoglie circa trecento ricercatori di tutto il mondo con il fine di capire come rendere migliore il rapporto dell’uomo con la tecnologia.

Prof. Giuseppe Riva
Prof. Giuseppe Riva

Prof. Riva, in alcuni suoi paper ho trovato un concetto poco utilizzato in questi anni che è quello di “positive technology”. Ce lo spiega?

È un dato di fatto che la nostra esperienza con la tecnologia è qualcosa di molto coinvolgente per la maggior parte di noi. Ma finora la maggior parte delle ricerche si è concentrata sugli effetti negativi di questo rapporto, ad esempio sul tema della dipendenza ci sono moltissimi studi. È mancata una riflessione su come la tecnologia può migliorare la nostra vita, come può aiutarci a stare bene. 

Ci sono tre dimensioni dell’esperienza che in qualche modo possono essere modificate dalla tecnologia e che noi stiamo indagando: la dimensione edonica, la dimensione eudaimonica e la dimensione sociale.

Partiamo dalla dimensione edonica. Ci spiega come può essere influenzata dalla tecnologia?

La dimensione edonica riguarda il fatto che attraverso l’uso della tecnologia sperimentiamo emozioni positive. Se pensiamo ai giovani che passano le giornate su Fortnite o su TikTok è indubbio che lo fanno perché quelle esperienze producono effetti positivi. 
Il problema vero di queste esperienze tecnologiche attuali è che puntano a stimolare  il soggetto dal punto di vista neurologico e neurobiologico, cioè a produrre dopamina attraverso continui cicli di stimolo e risposta, per farlo rimanere più tempo incollato allo schermo. 
Da qui abbiamo incominciato a costruire delle esperienze che, in qualche modo, ci permettessero di stimolare le emozioni positive, ma senza creare dipendenza. 

È questo il senso dell’app “Covid Feel Good”?

Sì, quando la pandemia ci ha costretti a rimanere chiusi in casa, le persone hanno registrato un abbassamento significativo della loro qualità di vita con alti livelli d’ansia e di depressione. Quindi abbiamo progettato un’applicazione per la realtà virtuale (da usare con un visore VR, anche uno di cartone da usare con lo smartphone) che permettesse di fare un’esperienza tranquillizzante dentro un giardino zen, progettato rispettando un equilibrio di forme e di elementi (anche le scelte cromatiche sono state fatte al fine di trasmettere emozioni positive). Abbiamo creato una narrativa per guidare la meditazione, attraverso semplici esercizi di controllo del respiro ed aiutare la persona a fare attenzione ad alcuni aspetti dell’esperienza.

Quest’app ha avuto un grandissimo successo (si scarica gratuitamente qui) tanto che è stata tradotta in 17 lingue. Questo ci ha permesso, attraverso una serie di studi controllati, di notare la stessa efficacia in tutti i paesi, in Europa come in Cina, indipendentemente dalle differenze culturali.  Dopo l’utilizzo per 10 minuti al giorno per una settimana, abbiamo notato una riduzione del 15/20% dei livelli di ansia e di depressione. Un risultato sicuramente molto elevato che ci ha fatto toccare con mano l’impatto trasformativo delle tecnologie immersive. 

Veniamo alla dimensione eudaimonica, di cosa si tratta?

Il termine deriva dal greco “dáimōn”, un demone che sapeva qual era il tuo destino e che stava male se tu stavi andando per la strada sbagliata e stava bene se stavi percorrendo quella giusta. E tu sentivi il suo dolore. 

Quindi la dimensione eudemonica è quella che lavora sul cambiamento di lungo termine, sul cambiamento di senso. In questo caso, con la VR si possono costruire esperienze trasformative (è quello su cui stiamo lavorando col collega Andrea Fagioli all’Università Cattolica).

Un esempio di esperienza trasformativa è il “body swapping”. Un esperimento che è stato fatto da alcuni ricercatori è stato quello di prendere un gruppo di soggetti negati in matematica e metterle nell’avatar di Albert Einstein. E che cosa è successo? Le loro performance matematiche sono migliorate. Come si spiegano questi effetti? Diciamo che la neuroscienza negli ultimi anni ha capito che in realtà il nostro cervello è un sistema simulativo che costruisce delle previsioni, che poi cerca di verificare nell’ambiente. Se io, dunque, penso di essere un genio, in qualche modo il mio sistema cognitivo si riorganizza per dare attuazione a questa previsione. 

Quindi queste esperienze potrebbero avere effetti benefici anche per pazienti affetti da qualche disturbo? 

Assolutamente. Una linea di ricerca riguarda proprio i disturbi alimentari. Per esempio le persone anoressiche si percepiscono grasse anche se non lo sono. E questo è un classico difetto del sistema di previsione. Nel momento in cui io entro in un corpo diverso, il mio sistema non è più in grado di fare delle previsioni, deve adattarsi a quelli che sono nuovi stimoli che emergono dall’ambiente e questo ci consente di correggere, almeno in parte, la distorsione nei confronti del corpo. 

Un altro problema è quello che riguarda gli ustionati che devono cambiare le bende più volte al giorno, con notevole dolore. Un nostro collega, Hunter Hoffman, ha creato un’esperienza virtuale in cui non il corpo del soggetto scompariva e quindi dato che il dolore sta nel corpo, scompare anche il dolore.
In sintesi, l’uso della realtà virtuale per ingannare il cervello che, ad esempio, funziona bene anche per combattere le fobie degli animali.

Una risonanza magnetica funzionale che mostra la riduzione di dolore grazie all'uso della VR.   Hoffman et al., 2004. Imagine diTodd Richards e Aric Bills, copyright Hunter Hoffman, www.vrpain.com.
Una risonanza magnetica funzionale che mostra la riduzione di dolore grazie all’uso della VR (Hoffman et al., 2004).
Immagine di Todd Richards e Aric Bills, copyright Hunter Hoffman, www.vrpain.com.

La terza dimensione che può essere modificata dalla tecnologia è quella sociale. In che senso?

La tecnologia ci è venuta in aiuto durante la pandemia per continuare a lavorare a distanza quando non potevamo uscire ma, al tempo stesso, dal punto di vista delle neuroscienze, ci ha tolto qualcosa.

Una delle scoperte più interessanti delle neuroscienze è stata quella dei cosiddetti “neuroni GPS” che non servono solo per il nostro orientamento nello spazio, ma hanno la fondamentale funzione di “memoria autobiografica” nel senso che ci permettono di costruire la nostra identità associandola ai luoghi che frequentiamo. Quindi io sono studente perché vado a scuola e lavoratore perché vado in ufficio. Quello che si è scoperto negli anni della pandemia è che questi neuroni GPS non sono stati attivati dai meeting su Zoom. 

Il problema è che con questo tipo di smart working  la mia esperienza finisce per essere separata dalla mia identità, lasciandomi con un senso di vuoto. Al contrario, un’esperienza di lavoro e ricostruzione degli uffici in realtà virtuale può permettere un’attivazione di questi neuroni GPS.

Generalizzando questo è importante perché noi possiamo ricostruire una dimensione di socialità all’interno del metaverso.

Solo se riusciremo a progettare esperienze sociali, il metaverso avrà successo. 

Un altro tema interessante è quello del Digital Twin applicato all’uomo…

Si, per me che sono uno psicologo cognitivo è molto stimolante la possibilità di avere un “gemello digitale” che può fare delle esperienze virtuali al mio posto.

Negli USA ho incontrato delle società che lavorano sui “virtual human” ossia avatar che incorporano i tuoi dati medici (scan in risonanza magnetica, radiografie, analisi varie) per simulare il funzionamento del tuo corpo. 

Per esempio, potrei dare al mio doppio virtuale tre farmaci e osservare gli effetti collaterali. Di conseguenza scegliere il farmaco giusto da assumere.

In conclusione la realtà virtuale può permetterci di sperimentare molte più esperienze di quante se ne possono fare nel mondo fisico, andare in luoghi impossibili da visitare in una vita o usare altri corpi. Questo è un bene o no?  

È un bene se queste esperienze vengono fatte da persone non fragili (quindi non dai giovanissimi o da coloro che hanno sviluppato tendenze dissociative). Una delle cose che ci insegna la filosofia greca è che noi non sappiamo chi siamo, lo scopriamo attraverso l’esperienza. Dunque un moltiplicatore di esperienze può essere molto utile. 

L'autore: Vincenzo Cosenza

Vincenzo Cosenza

Vincenzo Cosenza è Marketing Consultant, autore di Vincos.it, fondatore dell'Osservatorio Metaverso e saggista. Ha lavorato in Microsoft, Digital PR, Blogmeter, Buzzoole. Il suo ultimo libro è "Marketing Aumentato".
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