Grande è la confusione sotto i cieli virtuali. La situazione, quindi, è eccellente. A Mark Zuckerberg riconosciamo il merito di avere richiamato l’attenzione su una parola – metaverso – della quale rischiavamo di dimenticarci. In fondo, che cosa dovessimo intendere con questa espressione lo aveva già suggerito Neal Stephenson in Snow Crash nel 1992: il metaverso è una «metafora» dell’universo fisico e delle sue regole.
Parliamo di uno spazio virtuale tridimensionale, navigabile e persistente, all’interno del quale possiamo interagire in tempo reale con altri individui e vivere insieme a loro esperienze di vario tipo, agendo attraverso avatar personalizzati (Stephenson li definisce «corpi audiovisivi)». Parliamo di spazio virtuale e ci riferiamo dunque non a un’irrealtà (un non-essere), ma appunto a una metafora (un cambiamento-del-modo-di-essere). Segnatamente, potremmo definire il metaverso – secondo applicare la terminologia di George Lakoff e Mark Johnson – una metafora strutturata, ossia un concetto strutturato nei termini di un altro concetto (Metaphors We Live By, 1980).
Allo stesso Zuckerberg va il demerito di avere costruito nell’ultimo anno una narrazione confusa, contradditoria e a tratti distopica. Per dire: non so se mi piacerebbe vivere nel metaverso, così come lo descrive la campagna pubblicitaria di Meta. E in ogni caso non sono sicuro di avere capito di che cosa si tratti. Sospetto che neppure il mercato finanziario lo abbia compreso, almeno a giudicare dal modo in cui certi annunci si sono riflessi sull’andamento del titolo della società al Nasdaq negli ultimi mesi. Il punto è che Meta non è ancora riuscita a spiegare agli investitori come monetizzerà il suo patrimonio di 2,4 miliardi di utenti, il giorno in cui non sarà più possibile fare pubblicità online attraverso lo sfruttamento intensivo e incontrollato dei dati personali. Ma questo non è un problema nostro.
Un Metaverso o molti metaversi?
Torniamo dunque al nodo della definizione: che cosa dovremmo intendere oggi, con l’espressione metaverso? Formulo qui una modesta proposta, senza la pretesa di pervenire a soluzioni definitive.
Intanto, se il Metaverso va inteso come la trasposizione di Internet in un unico mondo virtuale immersivo, dobbiamo riconoscere che esso non esiste. O che, perlomeno, non esiste ancora. Ha ragione, in tal senso, Matthew Ball, quando riflette sul punto nel suo recente The Metaverse: And How It Will Revolutionize Everything (recensito qui). Una rete interoperabile di mondi virtuali tridimensionali – osserva Ball – è ancora di là da venire. E, per quanto egli si dichiari fiducioso a riguardo, si tratta di uno scenario che potrebbe non realizzarsi mai (ne ho parlato qui).
Potremmo dunque distinguere due modi di usare il termine metaverso, entrambi relativamente legittimi ma assai diversi.
Da un lato il sostantivo, usato al plurale e con l’iniziale minuscola, ha il valore di nome comune. Chiamiamo dunque metaversi le numerose piattaforme che ospitano mondi sociali virtuali tridimensionali, generati in tempo reale, di cui può fare esperienza simultaneamente e in modo persistente un numero illimitato di utenti, vedendo riconosciuti la propria identità, la propria storia e i propri diritti di proprietà su beni di natura virtuale. Com’è noto, le piattaforme di questo tipo sono numerose. Più o meno popolate, più o meno interessanti e più o meno funzionali agli obiettivi di chi intende vivere la propria esperienza virtuale (si veda questa mappa).
Non avrai altro Metaverso all’infuori di me
Perché affermo che l’uso della parola metaverso con questa accezione ha una legittimità relativa? Perché, se il Metaverso è la metafora dell’Universo – entrambi scritti, non a caso, con l’iniziale maiuscola – allora deve essere unico. Proprio come l’Universo (dal latino universus «tutto intero»), il Metaverso è infatti l’ambiente in cui risiede tutto. Le singole piattaforme non possono essere confuse con l’intero. Piuttosto, esse sono parti di un ipotetico intero, non ancora interconnesse.
L’altro uso del sostantivo – appunto – è al singolare e con l’iniziale maiuscola, avendo il valore di nome proprio: il Metaverso. Ma in tal caso potremmo intendere due cose differenti. Da un lato potremmo riferirci a quella famosa rete di mondi virtuali interconnessi e interoperabili ancora da venire, auspicata da Ball. Dall’altro lato potremmo avere in mente il risultato di una violenta selezione operata dalle forze del mercato, tale da determinare la sopravvivenza, nel lungo periodo, di un’unica piattaforma. Sospetto che quest’ultimo sia il sogno di Zuckerberg: dal politeismo attuale dei tanti metaversi al monoteismo di Meta.
In fondo è stato anche il miraggio che il fondatore di Facebook ha inseguito nella stagione del Web 2.0: sovrapporre perfettamente a Internet la propria piattaforma, in modo da rendere disponibile all’interno di essa qualunque servizio desiderabile dagli utenti, trattenere gli stessi utenti dentro un ecosistema autosufficiente e indurli a dimenticare il resto di Internet. Vi ricordate il progetto di Libra, la criptovaluta di Facebook?
Il mondo della vita sociale (virtuale e 3D)
Al di là della distinzione fra Metaverso e metaversi, occorre evitare di confondere il concetto di mondo virtuale con quello di realtà virtuale. Quest’ultimo termine ha finito per designare un tipo di tecnologia, mentre l’espressione mondo virtuale ha un senso molto più ampio. Essa allude a uno spazio entro il quale si manifesta il nostro agire sociale, come avviene nel mondo fisico. Il mondo virtuale è il mondo delle attività o mondo della vita sociale, virtualizzato. Come tale, è necessario che includa alcuni componenti essenziali:
- degli attori razionali coinvolti in una dimensione intersoggettiva;
- dei valori simbolici, che possiamo chiamare anche oggetti culturali;
- delle istituzioni (leggi, regole, convenzioni, costumi).
Nessuna società esiste, neanche online, in assenza di tali componenti. In particolare, valori simbolici e istituzioni regolano gli scambi fra individui all’interno di ogni mondo sociale.
Un mondo virtuale è un ambiente simulato, generato da un computer. Esso può riprodurre il mondo reale o rappresentare una realtà fittizia priva di corrispondenza con il nostro universo (o, per lo meno, con la parte a noi attualmente nota). Ma questo non implica che per accedervi occorreranno tecnologie predefinite, come i sistemi di realtà virtuale, o specifici strumenti hardware, come caschi, visori e guanti.
A prescindere dalla tecnologia, ci aspettiamo che un mondo virtuale sia tridimensionale. La precisazione si riferisce all’idea di un passaggio epocale: il 3D come condizione per rendere l’esperienza online più realistica, ricca e coinvolgente. In fondo il metaverso potrebbe anche essere descritto come una Internet tridimensionale. L’emergenza Covid-19 ci ha insegnato che virtualizzare aspetti importanti della nostra vita — pensiamo al lavoro o alla scuola — comporta un prezzo troppo alto, fino a quando si resta confinati all’interno di esperienze bidimensionali.
L’esperienza dello spazio
Perché il 3D è importante? Per rispondere a tale domanda, dobbiamo ricordarci che in mondo virtuale implica il disinnesco dallo spazio fisico e geografico. Tuttavia, il 3D concorre a rispazializzare l’esperienza. Affinché la compresenza e l’interazione di molteplici individui si realizzino, il metaverso iscrive ogni esperienza all’interno di una visione spazializzata. Mentre nel Web 2.0 lo spazio è ciò che manca più di ogni altra cosa, nel metaverso lo spazio è il medium che rende possibile tutto. Nel senso che tutto accade, è esperito e risulta intellegibile dentro uno spazio. Ciò risponde a un bisogno che sembra insito nella natura umana, quello di mappare cognitivamente gli spazi in cui risiedono le informazioni da processare, per poterle comprendere e ricordare. Anche se, va aggiunto, si tratta di una trasposizione metaforica. Nella sostanza digitale, non si sono informazioni più vicine e più lontane. Né hanno senso fisico il su e il giù, il sotto e il sopra. Siamo noi che associamo alle informazioni delle coordinate spaziali. Abbiamo bisogno di passare dalla dis-pazialità dell’informazione digitale alla spazialità che sorregge i nostri processi cognitivi (si pensi, in tal senso, al ruolo delle place cells e delle grid cells, o «neuroni GPS», rispetto al modo in cui prendiamo le decisioni). Anche in questo caso Stephenson sembra offrirci un’illuminante intuizione: «Nel Metaverso non puoi materializzarti ovunque ti salti in mente, come il Capitano Kirk che scende dall’astronave col raggio trasportatore. Ciò creerebbe confusione e irritazione tra la gente lì intorno. Sarebbe la fine della metafora» (Snow Crash, 1992; trad. it. 1995).
Fin dove giunge la voce dell’araldo?
Non è dunque sbagliato porre la questione dei confini di questo spazio. Attenzione: non alludo qui al fatto che nelle maggiori piattaforme, come Sandbox e Decentraland, esiste solo un numero limitato di appezzamenti di «terra» (altra metafora). Né penso al problema della scarsità delle risorse di calcolo, nonostante il cloud computing e ammennicoli vari. Mi riferisco a una questione concettuale, che si riflette sul design dell’esperienza. Il Metaverso può essere spazialmente illimitato? Quello immaginato da Stephenson non lo era. In Snow Crash si parla di una sfera con una circonferenza pari a 65.536 km. Eppure, la retorica corrente celebra spesso l’idea che un mondo virtuale sia, per definizione, infinito. Siccome nel mondo virtuale possiamo raggiungere chiunque, indipendentemente dalla sua distanza da noi nel mondo fisico, allora – si dice – il nostro agire è privo di confini spaziali.
Credo che non sia così. Credo che il mondo della vita sociale – di volta in volta lo chiamiamo paese, comunità o patria – abbia i suoi confini. E ciò resta vero online, anche se i media digitali ci permettono di portare la voce dell’araldo ben oltre i confini immaginati da Aristotele, quando rifletteva intorno a questo stesso problema nella Politica: «Ma c’è senza dubbio una misura di grandezza anche per lo stato, come per ogni altra cosa, animali, piante, strumenti: […] chi sarà, infatti, lo stratego di una massa di gente troppo smisurata? o chi l’araldo se non ha la voce di Stentore?». Per quanto stentorea, la voce dell’araldo virtuale non giunge ovunque. Essa soggiace a quella spazialità di cui i nostri processi cognitivi necessitano; una spazialità al di fuori della quale tale voce sarebbe solo rumore.